Rizzardo VI da Camino nominò podestà
Guecello e poi il fratello Bernardino che sposò la cadorina Gaia
di Nicolò. Nel 1329 investì i feudi della contrada ai
cadorini Lorenzo e Giovanni Piloni. Questo fatto determinò la
presenza, nel 1333, di un rappresentante del Cadore in seno al parlamento
friulano. Da semplice uditore, il rappresentante si evolse in portavoce
dei problemi della comunità. Due anni dopo, Rizzardo VI morì,
lasciando tre figlie sotto la tutela della madre. Subitanea, Venezia
si arrogò l'annessione del contado di Serravalle. E' pensabile
che anche il Cadore aspirasse ad approfittare della situazione. Intimorito
però dalla potenza lagunare, la comunità del Cadore decise,
divenendo di fatto unione politica, di rimanere fedele alle Caminesi.
La vedova di Rizzardo sostituì il podestà con un vicarius
Cadubrii, che governava in sua vece.
Il Patriarcato di Aquileia
Una potente lega contro gli Scaligeri, nel 1337, offrì opportunità
ai fratelli Carlo di Lussemburgo duca di Moravia e Giovanni duca di
Carinzia di annettersi Belluno e Feltre, ottenendo il consenso delle
popolazioni locali. Anche le Caminesi ne chiesero la protezione, incaricando
Giovanni Piloni delle trattative. Il medesimo fu contemporaneamente
investito dai rappresentanti del Cadore, riunitisi in consesso, dell'incarico
di sindacus et procurator et nuntius specialis Communis et Universitatis
terrae Cadubrii. Il titolo non lascia dubbi: si potrebbe trattare
infatti dell'atto di nascita della Magnifica Comunità di Cadore.
Il Piloni seppe destreggiarsi e ottenne protezione per le Caminesi e
per il Cadore.
Centenaro
Divisione territoriale locale a sua volta suddivisa in regolati, la
decania fu, con probabilità, imposta dai Longobardi. In
seguito venne denominata centenaro, circoscrizione militare-amministrativa
formata da uno o più comuni (regole), che rimasero in vigore
fino alla caduta della Repubblica veneta (1797). Spettava al centenaro
di eleggere un officiale (notaio con compiti di giudice nelle
cause civili e ufficiale di polizia), i rappresentanti al Consiglio
della Magnifica Comunità e un capitano (comandante della milizia
locale del centenaro, la cernida). Alle assemblee intervenivano
tutti i cittadini sotto la presidenza di un capo, nominato di volta
in volta. I centenari erano in tutto dieci.
I
Castelli
Gli unici due castelli documentati con certezza in Cadore furono quelli
di Pieve di Cadore e di Botestagno. Il castello di Pieve si trovava
sul Monterìco, in posizione dominante e strategica, risultava
perciò di difficile accesso. La prima fonte che ci consente di
supporne l'esistenza, risale al 1140, quando il re di Germania, Corrado
III, conferma i privilegi dati alla chiesa di Frisinga, fra cui il Comitatum
Catubriae. Distrutto da un incendio, venne poi ricostruito durante
l'occupazione aquileiese. Il castello era munito di ponte levatoio,
era dotato di una torre, di alloggi destinati al corpo di guardia, di
magazzini, di un'abitazione per il comandante; aveva inoltre al suo
interno una chiesa dedicata a S. Caterina d'Alessandria. Il castello
venne più volte restaurato nel corso del XV secolo e, a partire
dalla dominazione di Venezia, venne progressivamente lasciato in abbandono.
Il complesso, con l'avvento delle truppe francesi (1797), venne prima
occupato e poi fu lasciato andare in rovina. Nel 1882 le autorità
militari italiane costruirono in quello stesso sito una fortezza, la
"Batteria castello".
Il castello di Botestagno, che si ergeva in posizione dominante sul
rio Felizon, oltre Cortina d'Ampezzo, sbarrava la via proveniente dal
Tirolo. Documentato dal 1309, anche se si ipotizza che esistesse già
a partire dal XII secolo, era presidiato da un castellano con alcuni
soldati. Con buona probabilità si doveva trattare di una fortezza
angusta, anche se non sappiamo come fosse esattamente; era comunque
dotato degli alloggi per le guarnigioni, per il sergente e il comandante,
di una cappella, le cucine, i magazzini, il pozzo con la cisterna, la
prigione. Venne messo all'asta dal governo bavarese nel 1808 e successivamente
distrutto.
Seppure l'Austria avversasse ogni forma
di proprietà collettiva, nel 1846 i comuni ottennero la restituzione
del bosco di Praducchia, dopo 10 anni di ricorsi legali contro l'affittuario.
Fu il primo tassello d'affermazione d'indipendenza di stimolo per ulteriori
spinte progressiste e per il rilancio politico del Cadore. Prese così
corpo da parte dei comuni la voglia di riscatto che dette luogo nel
1848 a pratiche per riappropriarsi dei boschi di Tovanella, Gogna, Popena,
Rinaldo, che in parte vennero ottenuti dopo annose pratiche giudiziarie.
A partire dal 1849 si iniziò a discutere
anche del lascito di Candido Coletti (patrimonio di 114 mila
fiorini) destinato ai comuni per contribuire alla fondazione di istituti
di educazione. Si trattava del complesso di segherie, stabilimenti,
immobili, mobili, macchinari, attività commerciale internazionale
denominato Candidopoli, il maggiore esistente lungo il corso del Piave
in territorio cadorino. L'intento di Coletti fu quello di sostenere,
con il ricavato prodotto dagli stabilimenti, una formazione culturale
ai giovani che offrisse loro metodologie professionali ed unione civica.
Non meno importanti, come ulteriore fattore di stimolo
dell'aggregazione, furono le acque presenti sul territorio e
il loro libero uso. Il Cadore ne esercitava il diritto e lo difendeva
da prima dell'anno Mille. Le acque infatti erano ad un tempo vie naturali
per la fluitazione del legname, energia per il funzionamento di seghe,
mulini, opifici e risorsa indispensabile per uomini e animali. Alla
proclamazione del Regno d'Italia (1861), in Cadore si contrapposero
due correnti politiche: coloro che volevano alienare questa risorsa
e coloro che invece la rivendicano all'intera "patria sostanza".
Determinante a questo punto fu l'azione di don Natale Talamini che perseguiva
una politica volta alla restaurazione dell'antica e tradizionale forma
di autogoverno locale e convinse la classe politica più aperta
a ricercare e unificare il patrimonio per essere utilizzato agli scopi
indicati da Candido Coletti. Oltre che sui temi economici, Talamini
pose l'attenzione sulla "Casa comune dei cadorini", il palazzo
comunitario di Pieve, che da sempre rappresentava l'unione del Cadore.
Il Consorzio del Cadore
Il "Piano" prevedeva la costituzione di un consiglio composto
da 22 membri eletti da ogni comune, una giunta e il voto d'Ampezzo nelle
questioni Candidopoli. Seppure lo statuto contemplasse la presenza dell'autorità
politica alle assemblee, venne respinto "colla taccia di complotto
politico", e si ordinò di riscriverlo.
Di fronte al forte desiderio di mutamenti, l'Austria cercava di scardinare
e vanificare i simboli dell'unione cadorina cercando, tra l'altro, di
usurpare il diritto cadorino sulle acque e soprattutto di maneggiare
per ridurre i beni pubblici comunitari (boschi e Candidopoli) a feudo
di potenti famiglie locali. Il Cadore però non si rassegnò.
Con l'appoggio del commissario distrettuale e del primo deputato di
Pieve, Pietro Solero, venne stilato un altro statuto e l'11 luglio del
1866, la campana dell'Arengo della Comunità suonò nuovamente,
avvisando il Cadore che la dominazione asburgica era cessata. Nel 1872
la Giunta procedette a varare il nuovo statuto che caratterizza il Consorzio
come ente morale a personalità giuridica. Nel il Consiglio di
Stato espresse parere favorevole e, l'11 settembre 1875, Vittorio Emanuele
II firmò il decreto di costituzione.
La Magnifica Comunità di Cadore
Lo stemma del Cadore ha due torri simboleggianti i castelli di Pieve
di Cadore e di Botestagno (Ampezzo), legati da una catena (in segno
di unione e di concordia), in mezzo ai quali si innalza un albero. In
molte raffigurazioni, quest'ultimo è un tiglio che la tradizione
vuole fosse quello abbattuto nel 1830 a San Vito di Cadore per far posto
al tracciato della strada di Alemagna, che sorgeva a fianco della parrocchiale.
In altre, specialmente quelle attuali, l'albero è un abete, la
pianta più diffusa sul territorio. E' probabile che lo stemma
avesse anche il motto "Justitia et fide conservabitur".
Comunità Montane
Centro Cadore
Comelico e Sappada
Cadore-Longaronese-Zoldano
Valle del Boite
E' presumibile che antecedentemente al quarto
decennio del XV secolo, il Consiglio comunitario si riunisse nella chiesa
arcidiaconale o nel castello e gli atti amministrativi venissero custoditi
nella sacrestia della chiesa che, essendo in muratura, preservava i
documenti da eventuali furti e incendi. E' inoltre attendibile che nel
1338, alla formazione dello statuto, la Comunità disponesse di
una cancelleria in quanto l'articolo VII recita "Che si debba
haver un'Arca [cassa] nella Cancelleria".
Distruzioni e saccheggi
Le truppe di Massimiliano I d'Asburgo (1509) bruciano e saccheggiano
il palazzo che viene restaurato nel 1525. Settant'anni dopo un furioso
incendio lo distrugge e il 13 marzo 1588 il Consiglio ne delibera la
ricostruzione, nominando soprastanti Tiziano Vecellio l'Oratore
e Gaspare Nardei. Il Vecellio presta alla Comunità 400 ducati
per quattro mesi, ottenendo l'ipoteca sul bosco da foglia delle valli
di Calalzo (divenuto sua proprietà). I lavori proseguono a rilento
per mancanza di denaro. Nel febbraio 1599 la neve fa crollare il tetto
e la facciata verso la piazza. Il 1 marzo Luciano Larese e Giacomo Riva
sono incaricati del ripristino che termina nell'ottobre successivo.
Nel 1600 è presumibile che anche il campanile (torre) sia terminato.
Nel 1683 sono ricavate, sotto il palazzo, le prigioni giudiziarie; il
carcere penitenziario è invece nel castello. Nel 1727 le rampe
di scale d'accesso alla cancelleria vengono sostituite con pietra di
Castellavazzo.
Il restauro
Nel 1835 si prospetta una ristrutturazione, che non risulta sia stata
eseguita. A ridosso del 1855 il pittore Giuseppe De Lorenzi affresca
sul lato della torre rivolto verso la piazza, l'effigie di Tiziano Vecellio.
Luigi Osvaldo Palatini (1862) fa innalzare i merli ghibellini sulla
torre, togliere il tetto in legno a due spioventi, demolire la scala
esterna addossata alla parete sud, abbellire la cancelleria e il vicariato
affidando fregi, bassorilievi, busti e cornici allo scalpello di Valentino
Panciera Besarel che termina i lavori nel 1864.Ricostituita la Magnifica
Comunità (1875), il 14 agosto, cancellato l'affresco del De Lorenzi,
viene collocato ai piedi della torre l'altorilievo dedicato a Pietro
Fortunato Calvi, opera degli scultori Panciera e Giovanni Battista De
Lotto. Nel 1918 il monumento le truppe austriache d'occupazione demoliscono
il monumento che viene ricostruito dallo scultore Annibale De Lotto.
Nel 1920 Giuseppe Palatini progetta e dirige diversi restauri: sistema
il salone consiliare, ridisegna l'antico "Caffè Tiziano"
(aperto il 1 novembre 1821) al piano terra e fa togliere l'intonaco
della torre. La Comunità nel 1925 si riappropria degli uffici
al primo piano, trasferendo la prefettura al piano superiore.
Radicali restauri (1947) mettono in evidenza i muri esterni in pietra,
precedentemente coperti da intonaco, si diminuiscono le falde del tetto,
si alza la soffitta e si decide che sia gli uffici del comune di Pieve
che quelli della pretura debbano trovare altra collocazione.
Nel 1954 si aprono sulla facciata sud tre finestre scoperte sotto l'intonaco,
ancora dal Palatini. Altri restauri (anni Ottanta sec. XX) sono eseguiti
per consolidare strutture, creare le sedi museali, rifare la copertura,
dotare il palazzo di sistemi d'allarme, di misure antincendio e adeguare
gli impianti alle norme comunitarie. Conclusi nel 2001 ulteriori lavori
alla torre (pulitura marmi, rifacimento intonaci, ecc.) e al palazzo
(ripristino dell'intonaco, consolidamento strutturale della scala d'eccesso,
ecc.).